Le relazioni internazionali sottostanti alle sue norme
Quousque tandem pacta sunt servanda?
Chiamatelo pure trattato. Ma non lo fu.
Come sempre accade quando le controparti di un accordo internazionale sono rappresentate da nazioni che hanno vinto una guerra e nazioni che l’hanno persa.
Non fu un trattato neppure nello stile, che in certe sue proposizioni risultò arrogante nei confronti dell’Italia sconfitta, perché rifletteva l’atteggiamento mentale ed il comportamento tenuto dai vincitori anglo sovietici e dai loro camerieri nei confronti di una nazione occupata e, nell’immediato dopoguerra, priva di Forze Armate temibili.
I vincitori però, come talvolta paradossalmente accade, imposero ai vinti clausole che ben presto risultarono dannose per le loro stesse nazioni.
Ma non anticipiamo.
Pacta sunt servanda
Il Trattato di Pace del 1947 fra l’Italia e le Potenze Alleate ed Associate – da qui in poi denominato TP47 – fu firmato dal plenipotenziario italiano a Parigi il 10 febbraio 1947; l’Assemblea costituente italiana votò a favore della sua ratifica il 31 luglio 1947, e autorizzò il Governo della Repubblica a ratificarlo con legge del 2 agosto 1947; il Capo Provvisorio dello Stato gli diede piena ed intera attuazione con decreto legislativo del 28 novembre 1947, recependolo nell’ordinamento giuridico italiano con effetto retroattivo al 16 settembre 1947.
La massima latina dice che i patti vanno rispettati. E’ giusta. Bisogna stipulare un altro patto per modificare le clausole, anche territoriali, stabilite da uno precedente che risulti inadeguato per la nuova situazione internazionale; perché non sia indispensabile dichiarare nuove guerre per modificare lo stato delle cose, com’è successo dopo il Congresso di Vienna del 1815 o dopo i trattati seguiti alla Prima Guerra Mondiale, tanto per fare due dei tanti esempi possibili. Un patto in revisione del TP47 imposto nella prima metà del secolo scorso dalle Potenze Alleate e Associate alla Cobelligerante Italia, potrebbe appunto evitare una nuova guerra.
Non è più tempo di guerre? E’ quanto da secoli vocianti moltitudini nutrite da smilze letture della storia amano rivelare a pavide platee desiderose di essere rassicurate. Ma anche solo a scorrere una svelta enciclopedia da asporto o una pallida e razionata analisi storica sulla rete telematica internazionale, si rileva facilmente che le guerre non hanno mai smesso di scoppiare; comprese quelle in atto in questo momento, cui non prestiamo attenzione perché non interessano direttamente il territorio della nostra Italia, ma solo – si fa per dire – i nostri interessi commerciali ed economici, la nostra sicurezza sui mari e nei cieli del Pianeta.
Non si pensi che quel velo di morbosa amnesia calato sul patriottismo nazionale a seguito di una sconfitta militare sia eterno. Prima o poi i popoli che hanno perso una guerra ricominciano a fare i conti senza più complessi con la propria identità, specie se tutto intorno a loro e nel mondo intero parla della grandezza della loro Patria; nel caso dell’Italia con la sua storia (anche quando l’archeologia che la testimonia cade a pezzi), e con la sua cronaca: quella dei ricercatori, dei medici, degli insegnanti, degli architetti, degli artisti, delle missioni militari internazionali, del volontariato.
Non è meglio prevenire, o perlomeno assecondare, questa presa di coscienza? Transare tra una codifica formale del passato e l’insorgente nuova situazione materiale?
Transazione avara e tardiva tra le rivendicazioni italiane di territori geograficamente propri ma politicamente amministrati dall’Austria – Ungheria e l’esigenza di tutelare l’integrità dell’Impero da parte di quest’ultima, fu quella proposta dall’Austria – Ungheria all’Italia nelle trattative precedenti la Prima Guerra Mondiale. E transazione avara fu quella concessa all’Italia alla fine della Prima Guerra Mondiale dall’Associato statunitense soprattutto ma anche dagli Alleati francesi e britannici, tra le acquisizioni territoriali previste per l’Italia in caso di vittoria dal Patto di Londra (stipulato il 26 aprile 1915 tra Italia, Francia, Regno Unito e Russia) e la richiesta italiana di annettere Fiume presentata alla Conferenza della pace dopo la guerra. Associato e Alleati disputarono all’Italia ogni centimetro quadrato non solo della Dalmazia a preponderanza etnica slava, ma anche dell’Istria etnicamente divisa più o meno in due tra italiani e slavi, e di Fiume abitata per due terzi da italiani. L’avarizia occidentale transatlantica contribuì a determinare la discesa in campo dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale a fianco dell’Europa centrale di lingua tedesca; discesa in campo che per altro non è dimostrato fosse imposta o provocata né dalle circostanze né da Stati stranieri, come sostiene Franco Bandini (1).
Una guerra che costò la perdita dell’Impero a vinti vincitori e liberati: Italia, Regno Unito e Francia. E soprattutto costò all’Europa, occidentale centrale e orientale, la fine dell’indipendenza militare, che già si era dimostrata parziale con l’intervento statunitense nella Prima Guerra Mondiale (1917), risultato decisivo per la vittoria finale dell’Intesa, vittoria che infatti fu conseguita solo dopo quell’intervento, nel 1918. In materia di transazioni l’attenzione deve essere dunque doverosamente massima, non solo da parte dei vinti ma anche dei vincitori. Ai secondi sarà utile ricordare che una vittoria appartiene già al passato un solo giorno dopo la sua proclamazione, e che non è dato sapere a quale nazione il futuro riserverà una scoperta scientifica o il rinvenimento di risorse economiche sul proprio territorio capaci di modificare sensibilmente i rapporti di forze.
Un nuovo patto che revisioni le clausole vessatorie imposte dal TP47 a danno di uno sconfitto di ieri, l’Italia della Seconda Guerra Mondiale, non deve necessariamente andare contro gli interessi di chi quella guerra l’ha vinta; sia che l’abbia vinta direttamente come gli anglo-sovietici, con altalenante ed incerto vassallaggio come la Francia, o per procura come la Croazia e la Slovenia che nel 1947 erano ancora inglobate nella Jugoslavia e prima ancora, fino al 1918, nell’Austria – Ungheria.
Discussioni e ratifica del TP47
Le clausole del TP47, stipulato tra più nazioni che insieme alle loro valvassine avevano vinto una guerra, con una nazione che l’aveva persa, sarebbero diventate esecutive, per l’articolo 90, a prescindere dalla ratifica della nazione sconfitta; eppure furono molte a suo tempo le discussioni sull’opportunità che l’Assemblea Costituente votasse a favore della ratifica del TP47, e, più in generale, furono numerose le discussioni in merito alle sue clausole.
Ci furono discussioni a proposito dell’onore della nazione.
Si rifletta per inciso che in ogni tempo, non solo allora, l’onore della nazione è stato forse sempre tenuto in gran conto soprattutto da animi nobili sì, ma alberganti in corpi che consumavano pasti regolari. Il senso dell’onore sarebbe dunque risultato ben poco percepibile da quelle moltitudini affamate che hanno affollato i dopoguerra delle nazioni sconfitte di tutti i tempi, mentre sarebbe invece riuscito molto più intelligibile ai plenipotenziari diplomatici seduti alla tavola – anche a quella – della pace; diplomatici dal sangue blu talvolta dubbio, ma certamente non carente di globuli rossi.
Per molti sarebbe stato importante salvaguardare l’onore non firmando il Trattato, perché il rifiuto avrebbe costituito una base morale fondamentale per il futuro della nazione.
A molti altri non sembrò un atto moralmente compromettente firmare il Trattato, ma un atto dalla valenza meramente giuridica, politica, visto che con o senza la ratifica dell’Italia le clausole di quel dettato sarebbero state comunque imposte.
Se si ritiene che il no alla firma di un trattato ritenuto insultante per la propria nazione possa assumere un valore anche morale oltre che giuridico e politico, la salvaguardia dell’onore risulterebbe ben poco attraente dal punto di vista gastronomico nell’immediato ma non in un futuro più o meno prossimo, perché avendo tenuto salde le fondamenta morali e la conseguente volontà di combattere della nazione, finirebbe per saziare non solo il nobile animo di pochi ben nutriti ma anche il corpo di molti affamati, il corpo della nazione intera. L’invidiata e vilipesa abbondanza di globuli rossi presente nelle vene del corpo diplomatico, assolverebbe cioè alla funzione di consentire ad esso di esaminare col dovuto distacco i bisogni materiali immediati delle moltitudini di connazionali, per non pregiudicare in futuro la salvezza, anche alimentare, proprio di quelle stesse moltitudini.
Il realismo pro firma mette invece bene in rilievo che una sollecita ratifica evita l’incrudelirsi delle condizioni economiche, stante l’occupazione militare della nazione, ed evita l’accelerazione del degrado morale, perché ben immaginabili i comportamenti dei soldati occupanti perdurando l’assenza nella nazione sconfitta di centinaia di migliaia dei suoi uomini, soldati e prigionieri altrove; si ricordi che solo a seguito dell’armistizio del 3 settembre 1943, furono 600.000 i soldati italiani imprigionati dai tedeschi.
A proposito dell’onestà che gli stranieri avrebbero dovuto profondere nella compilazione del Trattato, risulta particolarmente fanciullesco Gaetano Salvemini quando suggerisce di: “… non firmare alcun trattato finchè non ci sarà l’assicurazione che la coscienza morale delle potenze maggiori sarà orientata alla giustizia”(2). Lo scrive – ma non fu l’unico a fare affidamento sulla giustizia degli stranieri – dopo che la Storia aveva già somministrato all’Europa e al Pianeta intero lo spettacolo del delegato dell’Unione Sovietica Molotov che, firmato nel 1939 l’accordo tra la sua nazione e la Germania di Hitler per la spartizione della Polonia, con disinvolto sprezzo del ridicolo aveva indossato la toga dell’accusatore durante le trattative di pace, nel processo che vedeva imputata l’Italia per aver intrapreso una guerra d’aggressione. Che vi fosse nel suo carattere questa propensione a vivere in un mondo non privo di favole, Salvemini lo aveva già dimostrato nel primo dopoguerra, quando aveva suggerito che “… come prova della sua buona volontà, il Governo italiano dopo aver dichiarato che non intende fare nessuna opposizione alla costituzione dell’unità nazionale serbo – croata – slovena, può dichiarare che a questo nuovo Stato nazionale cederà la Liburnia e la Dalmazia purché sia possibile intendersi equamente con esso su tutto il problema adriatico con la mediazione amichevole dei comuni alleati”(3).
Per compensare gli italiani di questa sua vena umoristica dannosissima, oltre che carsica perché riemergente durante entrambe le trattative post belliche e specie con riguardo alla zona del Carso, fu invece particolarmente lungimirante, contrariamente a molti dei suoi contemporanei, nell’avvertire la sempre più determinante potenza economica e militare degli Stati Uniti sulla scena internazionale; potenza che si sarebbe tradotta, ad onta dei tanti e tanto sbandierati “splendidi isolamenti”, in una sempre più marcata politica transoceanica che quindi avrebbe interessato sempre più da vicino l’Italia: “… il problema dell’Adriatico non è discusso in un campo chiuso, in cui si trovino solamente a scambiarsi insolenze e spintoni italiani e slavi: questo è l’errore di visione dei municipali dell’irredentismo adriatico … La opinione pubblica dei paesi alleati vi partecipa, e specialmente quella dell’America, che ha dato il tracollo alla guerra e dirà la parola decisiva per la pace …” (4).
L’Italia fu ingenua a credere nelle promesse di giustizia degli alleati e in un futuro di collaborazione, sostituite all’atto pratico da precise clausole vessatorie del TP47.
Clausole che nel caso delle mutilazioni al confine occidentale, vedono l’occhiuta Francia impadronirsi, tra l’altro, della sorgente del fiume Roia e del lago del Moncenisio; l’avara maramaldesca cugina d’oltralpe toglie finanche l’acqua all’affamata Italia del dopoguerra, ricambiando nel 1947 con una pugnalata doppiamente miserabile quella sferratale dal velleitario bellicismo italiano nel 1940.
Sul confine occidentale leggiamo le parole pronunciate da Luigi Einaudi: Al par di ognuno di voi, il dolore per le amputazioni ai confini orientali ed occidentali è profondo nel mio cuore; e per quel che riguarda i confini occidentali, più che il dolore, è viva in me l’indignazione e l’ira per la cecità con la quale uomini così fini ragionatori, cervelli così limpidi come sono i francesi si sono lasciati trascinare a ripetere i frusti argomenti che noi, cultori di storia piemontese, avevamo letto nelle istruzioni ai diplomatici ed ai generali di Luigi XIV per contrastare ai piemontesi la conquista del confine supremo delle Alpi, raggiunto finalmente, dopo secoli di lotte, nel 1713 e consacrato nel definitivo trattato dei confini del 1760 [non del tutto esatto: rispetto al Trattato di Utrecht del’11 aprile del 1713 il confine venne arretrato a est lasciando l’intero abitato di Monginevro alla Francia] … io voterò, pur col cuore sanguinante per le Alpi violate, a favore della ratifica del trattato, come mezzo necessario per entrare a fronte alta nei consessi delle nazioni …. (5).
Quale che sia il giudizio complessivo sulla condotta delle trattative di pace da parte dei nostri plenipotenziari del secondo dopoguerra, ricordiamo che ci hanno in ogni caso risparmiato l’infantilismo sterile di un abbandono per protesta del tavolo delle trattative, come quello al quale furono indotti da una dilettantesca emotività i loro omologhi del primo dopoguerra. Va in ogni caso ricordata la situazione difficilissima dei negoziatori italiani, stretti tra l’avidità dei vincitori e l’odio degli sconfitti per via del cambio di campo effettuato dall’alleata Italia, che il 3 settembre 1943 firma l’armistizio con gli Alleati e il 13 ottobre dello stesso anno dichiara guerra alla sua ex alleata, la Germania.
A proposito però dei dileggiatissimi cambi di campo dell’Italia, per inciso alcune domande: quei tedeschi che nel 1915 ci hanno rimproverato per la denuncia della Triplice Alleanza (stipulata tra Italia, Germania e Austria – Ungheria), perché ci hanno voluto come alleati nella Seconda Guerra Mondiale? Perché dopo il cambio di campo del 1943 sono stati nel 2012 nuovamente nostri alleati in Afghanistan? E perché tante altre nazioni ci hanno chiesto con insistenza di essere loro alleati nei Balcani, in Afghanistan, Iraq, Libano, Libia, e altrove?
Le frontiere italiane non restarono completamente aperte: il Brennero venne salvato, ma nessun politico o partito italiano riuscirono ad evitare che venissero ceduti alla Francia più di 700 chilometri quadrati, e alla Jugoslavia più di 8000 (considerando unitariamente la cessione a titolo giuridico effettuata col TP47, e la perdita di fatto della Zona B del Territorio Libero di Trieste che verrà successivamente codificata a titolo giuridico col Trattato di Osimo del 1975).
Il TP47, come già scritto, viene firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, ottiene dall’Assemblea costituente italiana il voto a favore della sua ratifica il 31 luglio 1947, ed entra in vigore immediatamente dopo l’ultimo dei depositi degli strumenti di ratifica, quello dell’Unione Sovietica, che aveva ratificato il TP47 il 29 agosto 1947. Lo sgombero delle truppe occupanti inizia dalla mezzanotte tra il 15 e il 16 settembre 1947.
Si noti che sempre a Parigi e sempre nel 1947 si svolge la Conferenza di Parigi per il Piano Marshall che mirava oltre che a favorire la ripresa economica dei paesi europei anche ad estendere e rafforzare i legami politici tra l’Europa e gli Stati Uniti. Un piano cui anche l’Italia aderirà e i cui aiuti considera fondamentali per rimettersi in piedi. E’ dunque facile immaginare con quale vigore siano state sostenute dai politici italiani le proposte di revisione dei confini stabiliti dal TP47.
Altrettanto determinante era stato il debito economico contratto dall’Italia con gli Alleati e l’Associato durante la Prima guerra mondiale; tanto determinante da moderare alquanto da parte dell’Italia, alla fine della guerra, le richieste di attuazione delle clausole confinarie previste a suo favore dal Patto di Londra in caso di conclusione vittoriosa del conflitto.
La ratifica del TP47 da parte dell’Assemblea Costituente rappresentò un punto fermo politicamente, se non giuridicamente, perché evitò un’eventuale applicazione più rigida delle sue clausole. Inoltre la ratifica favorì la fine dell’occupazione, favorendo così l’obiettivo fondamentale di espellere dal territorio nazionale le truppe straniere.
Argomentare più lungamente per capire se la ratifica sia risultata utile per l’indipendenza politica ed economica d’Italia o abbia al contrario codificato una acquiescenza troppo sollecita alla volontà delle nazioni vincitrici, sembrerebbe essere oggi, a distanza di 68 anni dalla stessa, poco utile al fine di esaminare le modalità di revisione del TP47; molto più produttivo interrogarci sulla perdurante accettazione passiva di alcune di quelle clausole dettate allora alla nostra nazione.
(1) Franco Bandini, “Tecnica della sconfitta” passim, Milano, Longanesi, 1969.
(2) Sara Lorenzini, “L’Italia e il trattato di pace del 1947” pag. 31, Bologna, il Mulino, 2007.
(3) Gaetano Salvemini, “La questione dell’Adriatico” pagg. 281/282, Roma, Libreria della Voce, 1919.
(4) Gaetano Salvemini, op. cit. pag. 286.
(5) Luigi Einaudi, dal discorso pronunciato all’Assemblea costituente nella seduta del 29 luglio 1947, riportato in: “La guerra e l’unità europea” pagg. 159 e 163, Milano, Edizioni di comunità, 1963.
Claudio Susmel
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DI CHI DESIDERA ESSERE INSERITO NEpLL’INDIRIZZARIO DI OBLO’
ottima lezione. io gradirei conoscere la durata esatta dei termini del TP47. Fino a quando questi trattati condizioneranno la vita italiana? usque tandem le clausole segrete?
Il condizionamento più o meno persistente dipende dal Sig. Paladini, dal Sig. Susmel e dagli altri italiani. Non so nulla delle clausole segrete che lei suppone esistano.
Questo intervento mi trova completamente in accordo.
Nella mia opinione il blog http://www.claudiosusmel.it è redattosenza dubbio in modo efficace, lo leggo sempre.
Ben fatto, buona giornata!
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La firma del Trattato di pace era condizione di cessazione dell’occupazione delle potenze alleate, e di ristabilimento della legalità democratica di un paese con nuove basi giuridiche (nuova Costituzione). Alla fine della guerra, per gli sconfitti, non ci sono rose e fiori. I trattati di pace (“imposti”?) si interpretano restrittivamente. L’incubo della guerra, in Europa, sembra sospeso ma i cittadini che non vigilano possono avere amare sorprese. Le Comunità nascono per questo: la dimensione della legalità, che a stento comprendiamo, porta pace, la dimensione dell’unilateralismo e della “patria” (l’Europe des patries di De Gaulle), spesso, guerra e macerie (la storia dell’800 e del 900 insegnano, abbondantemente direi). Non ho compreso appieno, temo, l’articolo…
Mi farà piacere se leggerà i prossimi capitoli, così da discutere in seguito.
I NOSTRI non possono o non vogliono comprendere
Una bellissima lezione di Storia. Ben articolata e ancor meglio argomentata.Complimenti.
Grazie. Seguiranno le altre puntate.