Cento anni fa iniziava la Prima Guerra Mondiale, l’Italia entrò nel conflitto il 24 maggio 1915.

La Quinta Guerra
d’Indipendenza Italiana

Cento anni fa iniziava la Prima Guerra Mondiale.
L’Italia vi partecipò dal 24 maggio 1915 al 4 novembre 1918 (Quinta Guerra d’Indipendenza Italiana).
Sangue e fatiche inenarrabili per i combattenti in divisa (circa 600.000 i morti per non parlare dei feriti), privazioni economiche per tutta la nazione, e dopo la disfatta di Caporetto (ottobre 1917) umiliazioni per le popolazioni dei territori occupati dagli austro ungaro croati.
La libertà è sempre costata cara.

Un uomo e la  sua famiglia sono liberi in casa propria quando hanno le chiavi della porta d’ingresso, una nazione, che altro non è se non il condominio di tutte le sue famiglie, quando controlla le porte dei suoi confini naturali; nel caso dell’Italia i suoi displuvi alpini e le sue acque territoriali.
La conquista dei confini naturali orientali di terra, coincidenti con il displuvio delle Alpi dalle Giulie alle Dinariche costiere settentrionali, si sarebbe realizzata quasi totalmente con la battaglia di Vittorio Veneto (ottobre 1918) solo nel tratto giuliano della catena alpina.
In che modo onorare oggi quel 24 maggio 1915?
Il rituale, una volta scontato, della folla plaudente di adulti e di ragazzini scalzi che si affollano correndo dietro la banda militare non usa più; gli adulti hanno le mani ingombre di moduli da riempire per pagare le tasse e i ragazzini non scalzi ascoltano musica da mille fonti.
Si può però provare ad onorare quella data, riflettendo sul fatto che le attuali richieste di aiuto alle nazioni transalpine per contenere l’invasione degli africani, non sempre pacifica e non sempre determinata da obiettivi rischi per la loro vita, vengono continuamente eluse o rimandate. Se è possibile cioè trattare con indolente e sussiegosa condiscendenza le esigenze di una nazione unita di sessanta milioni di abitanti, risulta allora logico attendersi la pressoché totale perdita di sovranità, sostanziale se non formale, per i rinnovati staterelli prerisorgimentali che abominevolmente si reincarnassero da una Italia nuovamente divisa o debolissimamente federata in presuntuose macroregioni.
Della forza dell’unità nazionale ne era ben conscio il Presidente del Consiglio De Gasperi, che nei suoi discorsi del dopoguerra, volti a mitigare le dure condizioni del Trattato di Pace del 1947 che si stavano profilando, insistette nel sottolineare che eravamo un popolo vitale di quarantacinque milioni di abitanti di cui sarebbe risultato remunerativo tener conto.

Chiusura antiquata ed epica ma fortemente sentita: non invano lottarono gli avi.

Claudio Susmel

Le lugubri primavere arabe

L’Italia, i successori di Gheddafi
e “ Il giorno della vendetta”

Numerosi epicentri di violenza sanguinaria sui litorali meridionali del Mediterraneo, non da oggi.
Uno proprio vicino a noi.

Gli ignoti cittadini che qualche anno fa hanno assaltato in Libia il consolato italiano di Bengasi, reclamavano vendetta contro la passata occupazione coloniale italiana.
Il colonnello Gheddafi, allora dittatore incontrastato di quella nazione, aveva parlato di una manifestazione con intenzioni omicide che era riuscito a fermare.
Rendiamo grazie postume.
Tuttavia, il vecchio slogan pubblicitario prevenire è meglio che curare suggeriva che sarebbe stato preferibile non celebrare ogni anno “Il giorno della vendetta” a ricordo dell’occupazione italiana, onde evitare che i perennemente deambulanti e ciondolanti professionisti dell’ozio si trasformassero facilmente in adepti sanguinari incontrollabili, come di fatto è poi accaduto con la detronizzazione e l’assassinio dello stesso Gheddafi.
Il suggerimento del vecchio slogan è sempre attuale.
A che servirebbe infatti ai politici libici covare in silenzio contro l’Italia nuovi giorni della vendetta?
Magari suggeriti da nazioni straniere ansiose di sostituire l’operosa presenza italiana in Libia, perché interessate al suo petrolio, e perciò inclini a fomentare sanguinose guerre tribali che destabilizzino l’intera nazione. Denominando poi con intrepida ruffianeria “Primavere arabe” queste lugubri per quanto assolate stagioni delle rive mediterranee meridionali.
Giorni della vendetta suggeriti forse anche da quella parte di libici che si mummifica in inconfessate millenarie nostalgie per il loro campione africano Annibale, che duemila anni fa valicò le Alpi con armi ed elefanti. A quella parte della popolazione libica, speriamo non numerosa e soprattutto non profetica, si suggerisce di venire nei nostri campi, nelle nostre industrie e nelle nostre università a studiare il nostro ingegno e la nostra litigiosità politica perenne ma incruenta; senza vagare con la fantasia intorno a improbabili marce su Roma, che alla resa dei conti sono in passato risultate letali sia per il condottiero punico che per qualche nostro connazionale.
Non facciano imputridire le loro menti sull’imperialismo di parte del popolo italiano di ieri e non si inveleniscano per le improvvide esternazioni razziste di qualche suo brufoloso rappresentante di oggi.

In fin dei conti, non solo per la loro religione ma anche per tutte le altre Dio è grande e gli uomini sono piccoli.
Qualche volta proprio di bassa lega.

 Claudio Susmel

L’umorismo ritrovato di casa nostra

Totò e il Trattato di Pace del 1947

Nessuna clausola del Trattato di Pace del 1947 aveva previsto che dovessimo guardare i film di Chaplin al posto di quelli di Totò.

Eppure per molti anni nella seconda metà del secolo scorso, sussiegosi cenni di approvazione e accenti di compunta ammirazione hanno commentato i passettini ondulanti di Charlie Chaplin, la sua bombetta con baffetti neri e denti bianchi sottostanti, e le sue non molte battute; ma a parte qualche suo reale estimatore, gli altri critici interinali cambiavano presto discorso.
Erano tempi in cui John Waine aveva sostituito Amedeo Nazzari, e Rin tin tin la Piccola Vedetta Lombarda. Sceneggiature, personaggi, paesaggi, guerre ed eroismi di altri popoli avevano accompagnato le truppe straniere sbarcate sul nostro territorio, realizzando una poderosa cancellazione della nostra filmografia nazionale.
La verità e l’identità tornano però sempre a galla, e governare gli italiani è difficile anche per le multinazionali straniere.
Lentamente ci riconoscemmo il diritto di sorridere e ridere apertamente per quel campione di comicità italiana – solamente italiana? – che fu Totò, totalmente privo di vaghe supponenti nubi intellettuali volte a stemperare e moderare il fragore gioioso e pieno di colore della vita racchiusa tra le Alpi e il Mediterraneo. Frizzi,  lazzi, scherzi, motti, burle, picchi vocali, bassi tocchi manuali (prevalentemente di gomito), mosse buffe e ammiccamenti, torcicollo da contorsionista, brillii dei mobilissimi occhi, scoppiettii senza fine di battute da copione o improvvisate in scena; testa, torso, mani, braccia, gambe e piedi in un perenne movimento che regalava personaggi e festa viva a tutte le età, e che infine impose a tanti di togliersi la maschera da pseudo intellettuali di spessore transalpino per concedersi di amare il proprio umorismo, quello di casa propria, quello di Totò.

Totò, cui dobbiamo, grazie a un suo film, la definizione umoristica meno sbracata e più sintetica di venti anni della nostra Storia che lui aveva attraversato con le sue compagnie di rivista: “… l’Impero romagnolo …”.
Totò, il Principe – per l’araldica e per l’arte – che il referendum silenzioso delle nostre anime ha trattenuto in quella Repubblica che il chiacchierato referendum elettorale del dopo guerra fece subentrare alla Monarchia.

                                                                                                      Claudio Susmel