Un po’ di latino perché il Vecchio Continente riscopra le sue radici
Prima inter pares
Il latino è l’unica lingua che può unire l’Europa, anche perché è l’unica che l’abbia unita in passato.
Potrebbe essere adottata progressivamente, nessuno si spaventi quindi per la sua eventuale adozione, soprattutto gli ex liceali: non dovrebbero subito rifare i conti né con lo squadrato Cesare né con l’ostico Cicerone. In ogni caso per noi europei è meglio fare tutti insieme i conti con i connazionali Ovidius e Lucius Annaeus Seneca piuttosto che restare disuniti contro i barbari dell’Isil.
Si parla tanto dell’unità europea, ma se ne parla in più di 25 lingue, perciò, paradossalmente, più si unisce la terra europea più si divide la sua anima, perché ogni subentrante lingua nazionale accresce le diatribe tra i nazionalismi linguistici e aumenta il lavoro per i traduttori, rallentando ulteriormente il transito delle idee e il processo di adesione al concetto unitario di nazione europea.
I francesi accetteranno mai la supremazia della lingua inglese?, gli inglesi quella della tedesca?; le domande di questo tipo possono moltiplicarsi ulteriormente. Qualcuno sembra propendere per un trilinguismo imperante a danno delle altre lingue che in questo momento non hanno la forza politica ed economica per contrastarlo: soluzione perfetta per porre le basi di una futura guerra civile europea.
Il latino è una lingua ufficiale della Città del Vaticano, uno Stato con 600 abitanti circa e che non fa parte giuridicamente della Comunità Europea; inoltre chiunque svolga un’indagine in questa o quella nazione europea – Italia inclusa – si accorgerà facilmente che la padronanza di questa sintetica e pur solida preziosa elegante lingua non è prerogativa di nessuna classe dirigente europea.
La sua adozione quindi non avvantaggerebbe nessuna delle popolose ma litigiose comunità nazionali che faticano a federarsi seriamente.
Si potrebbe iniziare a divulgare questo storico mastice linguistico d’Europa con lo stampare le diciture di monete cartamoneta e francobolli solo in latino – tra l’altro si risparmierebbero tempo denaro e fatica -, e col denominare in latino, oltre che nella lingua della nazione ospite, i cartelli dei vari incontri internazionali che si svolgano in Europa tra europei ed extraeuropei.
Contemporaneamente a questo iniziale comune uso della auspicata lingua federale europea, potrebbe essere stampato e divulgato gratuitamente un libretto contenente cento parole di uso comune scritte nelle varie lingue della costituenda Federazione Europea con la corrispondente traduzione in latino. Magro vocabolario, che però unirebbe l’Europa più di centomila temporanee infide strette di mano tra rivali politici di nazioni diverse, che proprio nelle molteplici desinenze linguistiche europee trovano ricovero, identità e incitamento per rinfocolare gli antichi reciproci rancori senza minimamente resuscitare gli altrettanto antichi indivisi fasti delle comuni radici latine.
Se inoltre si optasse anche per l’introduzione di una segnaletica che nei pressi degli antichi monumenti comprendesse il latino, è ragionevole pensare che questa risulterebbe più affascinante di quella attuale per un australiano con cappellone, un cinese con occhiali, e un africano con colorata toga, così come per tutte le altre deambulanti declinazioni turistiche dell’umanità domiciliate nell’antroposfera extraeuropea in cerca di storia e di bellezza nel Vecchio Continente.
E per un europeo italiano perennemente equipaggiato con mugugno e gelato, la scritta Italiae Senatus leggibile sul cartello indicante il nobile edificio, non risulterebbe forse una definizione affascinante, perché breve e proporzionata alla prossima nuova dimensione numerica della millenaria domestica istituzione?
Nulla vieta di interrompere il progressivo utilizzo della lingua latina anche dopo averne promosso solo l’uso minimo, quello delle diciture in latino su moneta carta moneta e francobolli.
In attesa di vedere l’effetto che fa.
Claudio Susmel
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